(poesia)
crepitio di parola ardente
piovuto dall’orlo di una luce
dentro il buio incandescente
della voce, intima vocazione
di numero e alfabeto, gentile
tumulto indecifrato di segni
(veglia)
fiore di buio che già ti somiglia,
più lungo giorno di questo
congedo, al silenzio
compiuto in cui s’allenta
la stanca fune degli anni
che hai teso, l’ora di veglia,
lume fioco, acceso a un muto
suono, sono sillabe che ardono
nascoste, coste d’insonnia
che segna l’approdo, l’età bianca
che non si consegna
e si sfalda a un freddo fuoco
(oleandro)
a contarli gli anni spesi a un crocevia
sono quel nome spento che non torna,
la luce di ogni giorno che va via
e tracima tra il muro e l’oleandro:
sarà il buio del cuore che risillaba
l’effimero segreto della vita,
il gelo notturno di una rima,
in quest’oscuro respirare lento
di tende in piena luce, bagliori,
vetri accesi, bianca crudeltà
di quadranti e calendari, tutta la viltà
del sogno che dirada, frasi nel buio
brancolanti, maceria di parola
che non si ricuce:
sei la fiamma di un’insonnia breve
tra fiumi distanti di sguardi,
voce convocata che si estingue
tardi coi lumi di strada,
scheletro di rami, notte e neve
(voce)
non ho versi o voce in cui riposi
la misura della luce seminata,
che conservi l’umiltà di un inchino
delle siepi al primo buio,
lo sgarbo triste dell’uomo
appoggiato a un muro in pieno cielo:
nessuna la sillaba, la parola in cui si celi
quest’ombra di vita che si tocca,
le mie vene, la sedia in paglia,
l’esagono della bottiglia, la caffettiera:
troppo presto è venuta questa sera,
e io non so più pronunciarla
(esergo)
Mentre scrivo o pronuncio queste frasi,
mentre tu le leggi o le ascolti,
amabilmente
a vicenda ci condanniamo
(non possiamo fare altro)
alla folle e forsennata libertà
di una frenetica clausura
Mattine
In tarda mattinata gli azzurri soverchianti
contro le tegole sono i contrasti sublimi, impeccabili
della casualità di un momento, la luce
per come si curva, le frequenze, le modulazioni
e sono tutto quello di cui avrei bisogno
per stare bene, se solo potessi
vivere soltanto di queste minime distrazioni
e non d’altre futili necessità, improrogabili
incombenze, imprescindibili eccessi
e se mai ci fosse un altro, un oltre
sarebbe qui, ora, ma non c’è,
e il trabocchetto è subito svelato:
non importa tanto oppure niente,
bisogna pur credere in qualcosa di improbabile,
anche in niente, sta tutto lì il segreto,
sia pure addirittura un dio implausibile,
o qualsiasi altra forma di salvezza
insperabile e perciò miracolosa,
non importa davvero che accada,
basta dirselo, basta il pensiero:
la meraviglia è dopotutto
soltanto un fatto percentuale, statistico,
e se proprio devo scegliermela
la mia fede è che tanta bellezza
non sia niente, non esista, sia solo
un accadimento come un altro,
una provvisoria coincidenza dello sguardo
e allora si è spacciati sul serio e bisogna essere felici,
immensamente, per il niente che tutto conta
perché si è sollevati dalla responsabilità di comprendere
per forza e dall’egocentrismo di un senso
univoco, cristallino, per noi,
prima della putrefazione degli occhi
In cucina
Aggiustare la caffettiera, spostare il bollitore,
riassestare la splendida bilancia digitale
dopo averla fatta luccicare, inclinare la teiera
a sinistra di centotrenta gradi
come anche le tazzine sbeccate
con gesto rapido e schivo,
lavare ancora i piatti soltanto per l’odore
pungente, gretto e sopraffino
del limone da discount del detersivo,
asciugare minutamente una a una le posate
per poi riporle nel loro cassetto
con amorevole garbo quasi esiziale
e poi per autopunizione o liberazione
schiaffare la spugna fradicia nel lavandino:
l’esecuzione metodica del gesto
rivela sempre ogni miseria e ogni grandezza,
la sistematica ossessione palesa
il genio e la sua idiozia.
Ma gli oggetti disposti e allineati nella stanza,
o buttati e affastellati alla rinfusa,
avranno sempre qualcosa da ridire
con la loro incorruttibile esattezza,
un’impassibilità, un preciso
e immutabile ordine interiore
devoto al mutamento impercettibile
che non possiamo in alcun modo sperare
di allineare o mettere a sistema
né tantomeno raggiungere per quella dozzinale
coscienza che mai hai deciso
di avere, e non sai che farne:
ragionamenti basati su chissà quali
leggi astrali, o inverificabili principi generali,
meccanismo di macchinazioni
fatto di semplici pensieri associativi
e idiosincratici rigetti,
generose iperboli e approssimazioni.
Ma gli oggetti ti sbattono in faccia tutto l’umorismo
del loro inconsapevole sopravviverti,
il tuo ridicolo ciarpame di corpo
e il suo decadimento, la tua carne
biodegradabile come sacchi di spazzatura
e il tuo servile ossequio agli atomi,
alla materia imperitura
dei metalli, delle pietre, dei composti,
dei tessuti sintetici degli stracci,
che si mescola e rimescola all’infinito
e ti tiene in pugno, fa di te quel che vuole,
può spezzarti, glorificarti, in ogni momento
e non hai presa o controllo sul tuo lento
fallimento, niente voce in capitolo,
Kandinskij
La geometrica, perfettamente falsa astrazione
di un quadro di Kandinskij
dai colori variopinti
mi ricorda la confusa astrattezza
di ogni nostra ambizione
e davvero non c’è mai stata estasi né ascesi,
solo una grande tenerezza,
se non nella stanza la plastica arancione,
e comprata in un negozio di cinesi
la verità dei girasoli finti